Quaderni Satyagraha
Non uccidere.
Il cristianesimo alla prova della condizione
animale
A cura di
Adriano Mariani
pp. 208, € 16,00
[ISBN: 978-88-7500-026-4
Recensione a Adriano Mariani, Non uccidere.
Il cristianesimo alla prova della condizione animale, Pisa, Gandhi
Edizioni, 2010
di Andrea
Cozzo
Il lavoro, articolato in quattordici informatissimi capitoli, è
guidato–come l’autore stessa dichiara-dall’intento di“vagliare,
alla luce del ‘principio nonviolenza’, la verità e i limiti del
cristianesimo riguardo alla condizione animale” (p.195). Benché
questo risulti certamente il nodo centrale dello studio, Mariani
intrattiene proficuamente un dialogo continuo con testi che sono
non soltanto quelli cristiani ma anche quelli della tradizione
antica, induista, buddista, senza trascurare neanche la
bibliografia degli studiosi che si sono interessati
all’argomento.
Nel volume,
tanto ricco ed articolato dal punto di vista dei contenuti quanto
coraggioso per la capacità di non risparmiare critiche alle
posizioni ufficiali del Cattolicesimo, l’autore tenta di costruire
una filosofia etica che assegni il primato alla nonviolenza e a ciò
che in questa è stato considerato da Tolstoj “la prima tappa”, cioè
appunto il vegetarianesimo. In quest’ottica, la tesi fondamentale
(di impronta gandhiana), come mostrano in particolare i capp. IV, V
e XIII) sostenuta nel libro è che “da un punto di vista
etico-teologico la scelta vegetariana discende direttamente
dall’allargamento della sfera della compassione e del rispetto a
tutte le creature con capacità di soffrire, dato che Dio non può
averle create per destinarle all al dolore e alla distruzione” (p.
50).
Per far luce su
questa prospettiva, lo studioso presenta criticamente, con
abbondanza di materiali, l’antropocentrismo teologico, esplicito
nelle epoche passate, oggi sempre più dissimulato ma non meno
forte, che permea tanto il senso comune quanto la dottrina
ufficiale della Chiesa cattolica. Sia l’opinione corrente sia la
Chiesa, infatti, sembrano considerare il tema del vegetarianesimo
in buona misura superfluo o, in ogni caso, da affrontare con una
certa dose di superficialità. Per questo esse si rifugiano in
luoghi comuni la cui storia, come ancora mostra Mariani, si dipana
al fianco stesso delle riflessioni a favore dell’astensione dalla
dieta carnea: In Occidente, nella Grecia antica, e in Oriente, già
in alcuni versi biblici. Così, a fronte di una scuola pitagorica,
diun Plutarco o di un Porfirio che mostrano le ragioni del
vegetarianesimo, o a frontedei versi della Genesi in cui Dio dice
all’uomo “ad ogni animale della terra… do per cibo il verde
dell’erba”, troviamo i versi, purtroppo (e non casualmente), più
noti dello stesso libro biblico: “Quanto striscia sul suolo e tutti
i pesci sul mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha
vita vi servirà da cibo o le prese di posizione della filosofia
stoica e di gran parte della cultura cristiana, e cattolica in
particolare (fino agli articoli pubblicati su riviste come ‘Civiltà
cattolica’ o Studi cattolici che enunciano la superiorità dell’uomo
sugli animali e il suo diritto a servirsi di questi come cibo,
limitandosi, al più ad invitare ad una “gentilezza di maniera”,
come la definisce opportunamente Mariani (p. 189), o ad una
astensione dal consumo di carne in occasioni specifiche o, come nel
cristianesimo orientale, per motivi di
purificazione.
In realtà, il
dialogo tra i sostenitori del vegetarianesimo e i loro avversari,
nella lunga conversazione che si è tenuta attraverso i secoli,
sembra un dialogo, per così dire bloccato; a volte, un dialogo tra
sordi. In esso, gli interlocutori, specialmente - sia detto senza
alcuna faziosità - i secondi, non rispondono alle obiezioni dei
primi alle obiezioni dei primi ma si limitano a ribadire principi
astratti sulla centralità umana nell’ordine cosmico o ad
argomentare altrettanto astrattamente, per esempio tirando in ballo
il celebre argomento della sofferenza delle piante che suona
all’incirca così: se il vegetarianesimo si fonda sul desiderio di
non produrre sofferenza, allora esso non riesce nel suo intento
perché anche il regno vegetale “sente” e, ciononostante, non è, e
non potrebbe diventare, tabù alimentare anch’esso. Al fondo di
questa argomentazione, argomenta Mariani riprendendo analiticamente
i motivi che i contendenti hanno messo ogni volta in gioco, c’è la
pretesa del tutto teorica di mettere sullo stesso piano la
sensibilità animale e quella vegetale, mentre possiamo ben decidere
di astenerci dalla dieta carnea senza per questo sentirci in
obbligo, in nome di una sorta di formale par conditio, a rinunciare
anche a quella vegetale, anche solo riconoscendo che la
sensibilità, nelle piante, è non necessariamente assente ma almeno
minore, come la scienza ci suggerisce, di quella animale. Insomma,
se non possiamo astenerci completamente dalla violenza, questo non
può diventare un motivo per astenerci dalla violenza da cui,
invece, possiamo tenerci lontani.
Infine – ed è
un elemento di non minore importanza – Mariani ci fa riflettere sul
valore di impatto/strutturale/ che ha la scelta vegetariana.
Quest’ultima non va intesa dunque soltanto come fatto di etica
individuale ma come vera e propria svolta
biocentrica.
L’astensione
dal cibo carneo, intesa non solo come possibilità di una dieta più
salutare (dunque, di nuovo, in funzione dell’uomo) ma anche come
volontà di evitare ad altri esseri viventi sofferenze non
necessarie, “significa mettere in crisi un intero sistema
industriale-alimentare basato sulla violenza e l’uccisione,
significa rompere con una tradizione culturale che ha fatto del
cibo carneo un simbolo di civiltà, opulenza, edonismo e benessere,
significa dischiudere una civiltà della gentilezza e del rispetto
verso tutti gli esseri” (p. 52). L’adesione al vegetarianesimo si
configura qui come rifiuto radicale dell’idea della violenza
perché, come l’autore mostra nel corso del volume, c’è una
continuità di pensiero tra il campo di Auschwitz e il macello; così
come c’è continuità, si può forse aggiungere, tra la rassegnazione
al mangiar carne per pigrizia rispetto al cambiamento – “per
l’abitudine di una vita”, dicono le parole di Peter Singer che
l’autore cita a questo proposito (p. 59) – anche quando si
riconoscono intellettualmente le ragioni del vegetarianesimo, e la
rassegnazione al nazismo che fu propria di quelli, tra i non ebrei,
che ne avevano capito la crudeltà ma non facevano nulla per
opporvisi. Paragoni “forti” ? Certamente sì, ma non certo privi di
sensatezza per chi è convinto che in una struttura sociale gli
elementi di livello microscopico hanno una influenza notevole su
quelli di livello macroscopico e che pertanto il vegetarianesimo,
lungi dall’essere lusso snobistico, può ben essere considerato
fattore determinante di un nuovo modo di vivere e di
pensare.
Abbiamo a che
fare,quindi, con una pratica di vita che è immediatamente
edificazione di una società non violenta: nei tempi lunghi certo,
come quelli previsti da ogni vero programma costruttivo di tipo
gandhiano il quale non postula la scoperta di un modo di vivere
alternativo, da qualche parte, dietro l’angolo, ma è consapevole
che una società non violenta la si realizza poco a poco,dal basso,
con perseveranza, e che proprio le pratiche che sembrano piccole,
forse di dettaglio, sono la miglior cartina di tornasole della sua
effettiva radicalità. E’ questo, credo, che l’autore, in ultima
istanza, intende dire quando parla di una necessità di andare
“oltre l’orizzonte biblico” (cap. XIV), verso la costruzione di un
mondo che si regoli secondo “il principio nonviolenza”; o, se si
preferisce dirla con Aldo Capitini, verso la costruzione di un
mondo in cui viga una “religione aperta”.